La sfida necessaria del taglio alle ore di lavoro

06.03.2024

In un bel libro dell'anno scorso, dal titolo "Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita" (Einaudi), la sociologa Francesca Coin ha scritto che "è evidente che quando parliamo di lavoro, nell'epoca attuale, parliamo di una classe precaria che non ha mai avuto in dotazione le tutele che caratterizzavano il Novecento. Il lavoro odierno rimanda, non a caso, a un insieme disomogeneo di condizioni e forme contrattuali per le quali l'idea stessa di lavoro tutelato è un'eccezione. Oggi la precarietà è la norma". Per Coin, "le aziende, tuttavia, si aspettano ancora che i lavoratori siano fedeli pur senza ricevere niente in cambio. L'intero dibattito sulle Grandi dimissioni, per certi versi, nasce precisamente dallo stupore con cui le imprese si rendono conto (…) che se non danno ai lavoratori ragioni per rimanere questi se ne andranno".

Il fenomeno noto come "great resignation", mostratosi in maniera evidente negli Stati Uniti poco dopo lo scoppio della pandemia, non ha risparmiato l'Europa, ivi compresa l'Italia dove il numero di persone che hanno deciso di lasciare il loro impiego è passato dal 18,2% del 2021 al 19,5% del 2022. Come riportato da Openpolis, il nostro è il Paese europeo con la quota più alta di individui che dichiarano di essersi dimessi per ragioni legate al mondo del lavoro (90%).

Non è un caso, dunque, se la conciliazione vita-lavoro sia l'elemento più ricercato dai lavoratori italiani, soprattutto donne, nella scelta di un'azienda (lo confermano i numeri dell'indagine Randstad employer brand research 2022) e se, come è emerso dal 7° rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, il 67,7% degli occupati in futuro vorrebbe ridurre il tempo dedicato al lavoro. Per tutti questi motivi, nelle ultime settimane da noi si è tornato a parlare di riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. In Parlamento giacciono diverse proposte di legge sul tema.

Le sperimentazioni già condotte all'estero suggeriscono di tentare questa strada, oltretutto in un Paese in cui, malgrado si lavori di più che in Germania e Francia, la produttività e i salari sono stagnanti. In almeno 18 Paesi nel mondo, difatti, si sta già testando la "settimana corta". In Giappone, nell'estate del 2019, Microsoft ha ridotto (da cinque a quattro) i giorni di lavoro settimanali senza tagli di stipendio per i dipendenti. Risultato: la produttività è aumentata del 40%. Altresì, i governi di Scozia (2019) e Spagna (2022) hanno creato dei fondi pubblici per le aziende che intendono partecipare a progetti di prova. In Italia sono ancora poche quelle coinvolte, ma invertire la rotta si può. Si deve.

Articolo pubblicato martedì 5 marzo 2024 su La Notizia

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